Alcune raccomandazioni per la gestione del diabete in corso di pandemia
Laassociazione del COVID 19 con altre patologie preesistenti è da tempo sotto la lente di clinici e esperti delle varie patologie, ne sono testimonianza le NICE su fibrosi cistica, dializzati, in terapia anticancro o più semplicemente in rianimazione. La problematica e la severità dei casi COVID è legata ad una risposta infiammatoria abnorme e da tempo è chiara la componente flogistica del diabete.
La forma grave di COVID-19 è caratterizzata da un accumulo di leucociti e mediatori dell’infiammazione. Il diabete è una comorbilità che si associa alle forme severe di infezioni da coronavirus, inclusa quella da SARS-CoV-2. I pazienti con diabete hanno un aumentato rischio di ARDS e insufficienza multiorgano.
Esistono collegamenti potenziali tra diabete e COVID-19: l’espressione del principale recettore di ingresso del virus (ACE2) è influenzata dall’iperglicemia e le cellule beta pancreatiche esprimono ACE2. Inoltre, un altro possibile recettore (DPP4) è uno dei bersagli farmacologici del tipo 2.
Il Diabete è stato segnalato già dai colleghi cinesi come un fattore di rischio per il COVID ed un gruppo internazionale di esperti, in endocrinologia e diabetologia, ha formulato (Lancet) delle raccomandazioni per la gestione dei pazienti diabetici durante la pandemia di SARS-CoV-2. Le raccomandazioni riguardano il controllo metabolico, l’identificazione dei pazienti ad alto rischio e l’utilizzo dei farmaci antidiabetici.
Raccomandazioni. I pazienti andrebbero seguiti mediante telemedicina. Dovrebbero intensificare il controllo metabolico come mezzo di prevenzione primaria della COVID-19. I soggetti con diabete di tipo 2 devono continuare le terapie antipertensive e ipolipemizzanti. Sulla base delle evidenze disponibili, le terapie con ACE inibitori, antagonisti del recettore dell’angiotensina 2 e statine non andrebbero interrotte.
Gli interventi chirurgici elettivi, inclusi gli interventi di chirurgia metabolica, andrebbero rimandati. I pazienti senza diabete ad alto rischio di malattia metabolica, in caso di infezione andrebbero monitorati per l’insorgenza di diabete. Sono da considerare ad alto rischio i soggetti sottoposti a trapianto delle isole pancreatiche, di pancreas, di rene e quelli che assumono immunosoppressori.
L’associazione diabete – COVID-19 richiede un monitoraggio continuo della glicemia.
Diabete di tipo 1. Gli autori delle raccomandazioni riportano un aumento di chetoacidosi diabetica severa nei soggetti COVID-19, forse in parte per i ritardi nell’ammissione ospedaliera. I pazienti con diabete di tipo 1 vanno informati di questa possibilità e vanno rieducati su questa complicanza (sintomi, test dei chetoni, gestione). I pazienti con diabete di tipo 1 e HbA1c elevata, più suscettibili alle infezioni, richiedono anche una terapia di supporto, per ridurre il rischio di scompenso metabolico, inclusa la chetoacidosi diabetica.
Diabete di tipo 2. I pazienti con steatosi epatica, ad elevato rischio di forma severa di COVID-19, dovrebbero essere sottoposti a screening per iper-infiammazione, al fine di identificare possibili beneficiari della terapia immunosoppressiva. Soprattutto i soggetti con obesità (fattore che influenza fortemente il volume polmonare e la meccanica respiratoria), sono a rischio di insufficienza ventilatoria e di complicanze durante la ventilazione meccanica.
Personale sanitario. Chi soffre di diabete non andrebbe messo in prima linea e, se questo non è possibile, andrebbe fornito di dispositivi che garantiscano un elevato livello di protezione.
Terapie. La terapia con insulina non andrebbe interrotta e la glicemia andrebbe costantemente monitorata. Gli autori delle raccomandazioni riportano che molti pazienti con una forma severa di COVID-19 richiedono dosi elevate di insulina, da somministrare mediante infusione. Va prestata molta attenzione all’equilibrio dei fluidi (i liquidi in eccesso potrebbero esacerbare l’edema polmonare) ed al bilancio del potassio (l’ipokaliemia è frequente nei pazienti con COVID-19 ed il trattamento con insulina potrebbe peggiorarla).
L’acidosi lattica, associata all’uso di metformina e la chetoacidosi diabetica, associata agli inibitori di SGLT-2, sono eventi rari, tuttavia questi farmaci andrebbero sospesi nei pazienti con sintomi severi di COVID-19. Gli stessi non andrebbero sospesi in forma preventiva nei pazienti non ricoverati, che non presentano sintomi o evidenza di un decorso severo di COVID-19.
I soggetti che assumono metformina e inibitori di SGLT-2 andrebbero attentamente monitorati per il danno renale acuto. I pazienti che assumono agonisti del GLP-1 vanno monitorati per la disidratazione. Non ci sono evidenze che suggeriscano la necessità di interrompere il trattamento con inibitori della DPP-4; se il trattamento viene interrotto e l’opzione è praticabile va utilizzata l’insulina.
TNF. Attualmente non ci sono terapie approvate per COVID-19. Non è ancora noto quali siano i mediatori chiave della risposta infiammatoria; nei pazienti è stato documentato un aumento dei livelli sierici di diverse citochine. L’anticorpo contro il recettore dell’interleuchina 6, tocilizumab, ha mostrato di essere efficace in alcuni pazienti ed è correntemente in fase di studio come trattamento per COVID-19.
Il fattore di necrosi tumorale (TNF) è il target farmacologico di diverse malattie infiammatorie; i farmaci anti-TNF sono largamente utilizzati e hanno un profilo di sicurezza ben caratterizzato. Alcuni studi preclinici sul virus respiratorio sinciziale (RSV) e quello dell’influenza, hanno suggerito che le terapie anti-TNF possano dare benefici nelle polmoniti virali senza compromettere la clearance virale.
Studi sull’artrite reumatoide hanno mostrato che bloccando TNF si può evitare l’innalzamento dei livelli di molecole di adesione e del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF), fattori che aumentano la permeabilità vascolare. Bloccando TNF si riducono anche l’accumulo di leucociti e la formazione di essudato.
Dato che intercorrono in media due giorni tra il ricovero e la sindrome da distress respiratorio acuto, la terapia anti-TNF andrebbe somministrata subito dopo l’ammissione in ospedale. I primi studi clinici dovrebbero valutarne l’efficacia in pazienti con malattia moderatamente grave, che richiede la somministrazione di ossigeno ma non la terapia intensiva.
Se questo approccio si dimostrasse efficace e avesse un buon profilo di sicurezza, si potrebbe pensare di estenderlo ai pazienti non ricoverati, considerati ad alto rischio di progressione; la disponibilità di formulazioni per la somministrazione sottocute potrebbe facilitare questo tipo di impiego, ma in tal caso i pazienti andrebbero adeguatamente monitorati.
I pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali che ammalano di COVID-19 e sono in trattamento con anti-TNF, non stanno peggio di quelli trattati con altri farmaci. I dati sono però ancora insufficienti per poter affermare che abbiano esiti “migliori”.
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